Nessuno lo voleva, ma alla fine si andrà al voto con il Rosatellum.
La convinzione che la legge elettorale fosse da cambiare era piuttosto diffusa nei diversi schieramenti politici.
C’è ancora il ricordo del 2018, di quei lunghi 80 giorni necessari a far nascere una maggioranza, perché le urne non consegnarono una vittoria netta a nessuno. Nacque il governo gialloverde, frutto di un accordo fra Lega e Cinque Stelle, che dovettero ricorrere a un contratto scritto: più che un documento programmatico, un vero e proprio ‘atto notarile’ con l’indicazione dei precisi impegni firmati dalle parti. Senza considerare che la legislatura è finita con un voto anticipato dopo altri due governi sostenuti da due maggioranze diverse.
La caduta precipitosa dell’esecutivo Draghi ha spento le iniziative di modifica della Legge elettorale. C’è anche una proposta di tipo proporzionale in commissione. Ma è ferma da mesi e, per la verità, non sembrava avviata al successo sicuro. Resta quindi il Rosatellum: 3/8 dei seggi di Camera e Senato assegnati in collegi uninominali e i restanti con metodo proporzionale.
Il peso politico della legge è spostato soprattutto sulla parte maggioritaria. Col taglio dei parlamentari, la norma prevede che 147 dei 400 seggi della Camera e 74 dei 200 del Senato vengano assegnati negli uninominali. In quelli, quindi, vince chi prende un voto in più. Per questo c’è un obbligo – o almeno una forte spinta – alle alleanze, alla luce del ragionamento che più ampia è la coalizione e maggiore è la possibilità di vincere il seggio.
Discorso diverso è per la restante quota proporzionali, dove ogni forza peserà il proprio consenso. Per quel che riguarda la porzione dei seggi che verrà assegnata con l’uninominale, secondo alcune proiezioni precedenti lo strappo di Lega, Fi e M5s dal governo Draghi, il centrodestra sarebbe stato nettamente favorito: con il 45% dei consensi, avrebbe raggiunto tra il 62 e il 66% dei seggi. È anche in questa ottica che rientrava la strategia di Enrico Letta di creare un campo largo, che tenesse insieme quante più forze possibili fra quelle che si oppongono all’alleanza fra Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi. Il Pd mirava a un patto che andasse dagli ex Leu a Renzi e Calenda.
La caduta del governo ha rimesso in discussione tutto. Il centrodestra sembra comunque avviato a una corsa unitaria. La lite, semmai, è su chi guiderebbe il governo dopo la vittoria, ma è questione che nulla ha a che fare con questa Legge elettorale. Il centrosinistra sta cercando di ricomporre nuove alleanze: la frattura fra Pd e M5s appare insanabile. E le forze di centro sembrano orientate a voler andare da sole. Ma i giochi sono ancora da fare. C’è tempo fino alla metà di agosto, quando dovranno essere presentati i simboli. E le pieghe della legge offrono sempre qualche via di fuga.