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I piatti del 25 aprile, a tavola la memoria

La pasta dei fratelli Cervi, le ricette di recupero sulla 'quella bella fame'

Esiste un piatto per celebrare il 25 aprile? La festa della Liberazione, così divisiva da tanti anni per le forze politiche, può unire gli italiani a tavola? Cosa si mangiò quel giorno del 1945? Erano tempi di guerra quindi, salvo che per pochi fortunati, il cibo era povero, non si sprecava nulla, ci si arrangiava, si cucinava con niente proprio come ora propone tanta gastronomia gourmet.

Era inevitabilmente una ‘cucina del senza’ che oggi recuperiamo non più per ristrettezze o mancanza di alternative come all’epoca ma per nutrirci dell’essenziale e semplice.

E se ‘quella bella fame’ (del 1943 in realtà) è stato il claim, per dirla con termini di oggi, di tutti quegli anni, storicamente c’è un piatto simbolo, un piatto che sfidò provocatoriamente.

E’ la pasta antifascista dei fratelli Cervi: quei 380 chili di pasta burro e parmigiano che la famiglia poi sterminata dai repubblichini a Reggio Emilia il 28 dicembre 1943, cucinò per tutto il paese di Campegine un altro 25 aprile, quello del 1943 per festeggiare la caduta di Mussolini. In un libro di qualche anno fa, pubblicato dall’editore Fausto Lupetti nel 2015, Partigiani in cucina, si racconta la Resistenza attraverso il cibo e così facendo si fa memoria di quel tempo, oggi che i testimoni diretti, cento anni all’incirca, ci stanno lasciando. Dai 380 chili di pasta al burro offerti dai fratelli Cervi a tutto il paese  emiliano per festeggiare la caduta del regime – spiegano le autrici Lorena Carrara , Elisabetta Salvini -, passando per le lasagne della ricostruzione gustate da Teresa Noce di ritorno dai campi della morte, fino ai 35mila bambini nutriti dalle donne emiliane nel duro inverno del ’45: è l’inusuale prospettiva per parlare di Resistenza attraverso il cibo.
Quel che si mangiava ai tempi della Liberazione si può sapere dai racconti delle vecchie generazioni, da quel libro citato e anche dal sito dell’Anpi, l’associazione dei partigiani. Ricette povere si è detto, semplicissime, una tavola con quello che si può con le difficoltà economica, le poche derrate alimentari e quel plus comprato a borsa nera. Questo per chi stava in città, fuori, in campagna e in montagna c’erano orti e galline ma anche qui con scorte ridotte.

Un cibo di guerra
c’è stato. Al Nord la polenta, era il cuore dell’alimentazione, al Sud  rape, cipolle e legumi. Il pane razionato e fatto con farine di risulta, la pasta un vero lusso, poi c’erano le bucce di patate, perchè non si buttava nulla (quindi oggi le patate fritte con skin, come leggiamo nei menu, dobbiamo sapere che non sono una novità), per non parlare del caffè davvero introvabile, spesso sostituito dal surrogato di cicoria. Olio se ne trovava al Sud, qualche grasso animale al Nord ma tutto in rarità preziosa.
Se poi eri in montagna partigiano o in clandestinità mangiavi quel che c’era e pure in fretta. Giorgio Bocca racconta di “riso stracotto, patate bollite, castagne e minestra” , facendo attenzione ai giochi che attiravano l’attenzione. E ciò che c’era si condivideva con tutta la brigata. Così condividendo pane, sofferenze e speranze s’è fatta la Resistenza.

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