Partiamo dalla fine. Da quell’amore viscerale per il lavoro, per la divisa e per la lotta alla criminalità di ogni sfaccettatura possibile, che non morirà mai in chi, come Vito La Mendola, appuntato scelto dell’Arma dei Carabinieri della Compagnia di Avezzano, colpito al volto violentemente da un cittadino della Repubblica Domenicana lo scorso 19 giugno, la professione si abbraccia stretta stretta con la luce di una missione superiore.
Con la responsabilità, cioè, di fare sempre il massimo, per sé stessi e per gli altri. Con il fatto di essere apposto ogni volta con la propria coscienza di “supereroe”. Anche se questa parola così altisonante non se la vogliono mai cucire addosso coloro i quali hanno deciso di servire lo Stato e i cittadini, nella vita di tutti i giorni.
Ora è a casa, ad Avezzano, in famiglia. E’ stato dimesso dall’Ospedale dell’Aquila il 26 giugno, con una prognosi di 40 giorni, anche se, senza dubbio, i mesi che dovrà trascorrere lontano dalla caserma, per recuperare le forze e uno stato di salute ottimale, saranno di più. Intanto si gode la famiglia, ma la voglia di tornare sulla strada, a svolgere il proprio dovere, è forte. Il suo caso è diventato nazionale, di ampio respiro, proprio perché fatti così, anzi aggressioni così, non si dovrebbero mai leggere sulla stampa.
Eppure c’è stata la violenza, brutale, l’arresto, le scuse ufficiali e anche la condanna, ultimo atto, a 3 anni e 4 mesi, con la revoca del reddito di cittadinanza. Erano in due, quel tardo pomeriggio di giungo. Due carabinieri. Hanno potuto poco o nulla, secondo il racconto dei fatti. Vito La Mendola è sempre stato lucido e, dopo aver incassato il pugno in faccia, che gli ha provocato la frattura del naso e della mandibola, è corso all’inseguimento del 41enne domenicano, che aveva anche un coltello in tasca, ammanettandolo. Cioè, in altre parole, ha portato a termine il suo lavoro di Carabiniere.
Poi la corsa in ospedale, l’operazione il 22 giugno, delicatissima, chirurgica, sul volto, al Reparto di Chirurgia Maxillo-Facciale del San Salvatore, dove gli hanno ricostruito il naso e parte dell’occhio, inserendo 3 placche di titanio. Se fossero stati in quattro, magari, quel pomeriggio, le cose sarebbero andate diversamente. O se avesse avuto il teaser – se ne è fatto un gran parlare nei giorni appresso all’aggressione del militare – magari adesso l’appuntato scelto, originario di Sabaudia, starebbe rilevando qualche incidente stradale o, forse, starebbe prendendo il caffè con i suoi colleghi di turno. Colleghi che dal vertice dell’Arma all’ultimo arrivato in Compagnia non lo hanno lasciato da solo un attimo.
Più volte, i militari e le Forze dell’Ordine in generale, si trovano a fronteggiare accese aggressioni in strada. Più volte subiscono calci, insulti e minacce. Più volte si trovano a dover fare i conti con persone sotto effetto di alcol o di stupefacenti; persone che non ragionano e che, quindi, con il semplice ausilio di un dialogo e di una parola da uomo in divisa, non si lasciano ammansire. Forse, in casi di estrema violenza come quello accaduto ad Avezzano, qualche aiuto in più, qualche tutela in più nelle mani di chi ci tutela, servirebbe. La solidarietà, comunque, nei suoi confronti è stata davvero tanta ed ha aperto la parentesi enorme di una riflessione italiana. Di una luce in più accesa su chi, tante volte, si gioca la vita. Perché, quel pomeriggio, la vicenda, che poi si è fatta cronaca su pagine e pagine di giornali, sarebbe potuta andare anche peggio.
O anche meglio.