La crescita socio-economica di una nazione o di un territorio si misura anche dall’effettivo godimento dei diritti di chi contribuisce in maniera decisiva a quella crescita: i lavoratori e le lavoratrici.
Questo – si legge in uno studio della fondazione Abruzzo Openpolis – vale anche per uno dei comparti più importanti, quello dell’agricoltura, perché caratterizzato dal lavoro di fatica, oltre che dalla natura prevalentemente stagionale del settore.
Non è un caso infatti che proprio nell’agricoltura esista il fenomeno del caporalato, che, insieme ad altri tipi di irregolarità lavorative, deve essere combattuto sul territorio da organizzazioni indipendenti, oltre che ovviamente dalle istituzioni.
In Italia non ci sono territori immuni a questo fenomeno. Non è esente neanche l’Abruzzo, regione in cui il comparto agrosilvopastorale è molto importante.
Sul caporalato, così come su precarietà e lavoro irregolare, i dati più recenti purtroppo si fermano al 2020. L’analisi di queste informazioni tuttavia, è utile per analizzare le dinamiche di lungo periodo.
Nell’ultimo ventennio, infatti, il tasso totale di lavoratori dipendenti irregolari è leggermente diminuito (di poco più di un punto percentuale), nonostante quello delle maestranze nella stessa condizione di irregolarità sia nettamente aumentato (oltre 4 punti) se consideriamo il solo settore dell’agricoltura. [grafico sull’irregolarità in agricoltura]
Gli stranieri hanno contratti di lavoro più precari
Un fatto, però, è stato appurato nel corso degli ultimi decenni: in Abruzzo come nel resto d’Italia – soprattutto nel mezzogiorno – a soffrire forme contrattuali o vessazioni da parte dei caporali sono soprattutto gli stranieri, disposti a lavorare anche di fronte a paghe non congrue o orari diversi da quelli messi nero su bianco nel momento dell’assunzione. E questo solo se si considera, naturalmente, la forza lavoro assunta regolarmente.
Sono i dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura a raccontarcelo: nel 2020 gli stranieri (comunitari ed extra-comunitari) impiegati nelle imprese agricole non a conduzione familiare o individuale erano quasi 9mila (per l’esattezza 8.606), circa un terzo del totale, pari a 23mila lavoratori e lavoratrici nella stessa tipologia di azienda.
Tuttavia, nonostante gli stranieri siano il 36,6% del totale, se prendiamo in considerazione i contratti con forma continuativa questa percentuale si ferma al 28%. Al contrario, se parliamo di contratti con forma saltuaria, gli stranieri rappresentano il 40,2% del totale. In altre parole, in Abruzzo i lavoratori in agricoltura non italiani hanno forme di contratto più precarie rispetto ai colleghi italiani.
In questo caso non parliamo di caporalato in senso stretto – storicamente meno diffuso in regione rispetto ad altri territori del sud – ma siamo di fronte a dati che danno in qualche modo la misura di come le persone straniere siano più esposte ai rischi dello sfruttamento.
Ad ogni modo è l’osservatorio Placido Rizzotto, che ogni anno pubblica il rapporto “Agromafie e capolarato”, a evidenziare come anche in Abruzzo ci siano procedimenti giudiziari aperti legati al caporalato. Si sarebbero verificati in provincia di Teramo (nel capoluogo e a Giulianova) e soprattutto nella zona del Fucino, in provincia dell’Aquila, e in particolare nei territori comunali di Avezzano, Pescina e Luco dei Marsi.
La centralità del Fucino nell’agricoltura abruzzese
L’altopiano del Fucino è molto importante per la produzione di ricchezza del sistema economico abruzzese. Parliamo di un’area grande 160 chilometri quadrati, che fino alla fine ottocento era il terzo lago più esteso d’Italia. È in quel periodo che i Torlonia prosciugarono completamente il bacino lacustre, provvedendo alla bonifica e quindi alla coltivabilità di quello che oggi viene da molti chiamato “l’orto d’Italia”.
Oggi il Fucino è motore economico della Marsica e dell’intera provincia: mille ettari coltivati a ortaggi, verdure e patate, con più di 500 soci produttori, oltre 20 milioni di euro di fatturato annuo, due marchi Igp (per la patata del Fucino e la carota dell’altopiano) e circa 10mila lavoratori, soprattutto stagionali, leggermente in diminuzione negli ultimi anni, a causa della meccanizzazione di alcune operazioni. Secondo il Covalpa, l’associazione di produttori agricoli abruzzesi, circa un terzo del pil agricolo della regione è prodotto in quest’area.
Per le aziende agricole della zona, le lavoratrici e i lavoratori stranieri sono una risorsa, tanto che nel 2020, anno del lockdown da Covid, la sezione provinciale di Confagricoltura ha organizzato voli charter dal Marocco a Pescara per centinaia di lavoratori del paese nordafricano. Tuttavia il settore si nutre annualmente di un flusso di migranti stagionali che rientrano nei cosiddetti “decreti flussi” per l’ingresso regolare nel nostro paese.
Molti di loro si stabiliscono insieme alla famiglia nei comuni limitrofi alla piana, altri tornano in patria e tentano di entrare nuovamente in Italia l’anno successivo. Molti sono integrati nel tessuto sociale dei paesi marsicani, nelle aree interne abruzzesi, ma c’è anche chi è soggetto a sfruttamento e caporalato.
Il lavoro degli operatori sul territorio
“Incontriamo spesso persone vittime di grave sfruttamento lavorativo – afferma a Abruzzo Openpolis Lidia Di Pietro, vice direttrice della Caritas diocesana di Avezzano – sono l’ultimo anello di una rete sistemica che a volte si vede anche a occhio nudo. Lo sfruttamento nel Fucino non è tanto un evento acuto che si contraddistingue per la durezza, quanto per la cronicità del fenomeno: un sistema che può contare sul supporto tacito, se non interessato, tra datori di lavoro, agenzie di intermediazione fiscale o legale, e alcuni rappresentanti istituzionali”.
La Caritas è molto attenta al fenomeno dello sfruttamento nel lavoro agricolo, tanto da attivare uno sportello permanente nella città di Avezzano (la più grande della Marsica) e uno mobile che ogni settimana gira tra le maestranze direttamente nei campi.
Secondo Di Pietro le condizioni di lavoro nell’ultimo anno sono migliorate, anche grazie al progetto Diagrammi Sud, un ampio partenariato che ha previsto per un anno anche la presenza sul territorio degli operatori dell’organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), un’agenzia dell’Onu.
Insieme alla Caritas locale vengono garantiti infatti servizi di attenzione alla persona: consapevolezza e informazione sui diritti-doveri dei lavoratori, miglioramento delle competenze linguistiche, tirocini inclusivi e supporto socio-sanitario ai lavoratori stranieri nelle campagne.
L’Oim ha messo inoltre a disposizione alcuni mediatori culturali di madre lingua araba, considerando che la maggior parte delle maestranze non italiane sono giovani di nazionalità marocchina.
“Purtroppo negli anni abbiamo assistito molte persone, comprese quelle che sono state frodate con la pratica per la cosiddetta sanatoria del 2020 – evidenzia Lidia Di Pietro –sulla elusione dei versamenti contributivi o pagamento in toto dei versamenti previsti dal procedimento, o addirittura pagamenti per accedere alla procedura”.
Fino all’arrivo dell’agenzia delle Nazioni unite la paga oraria media era 4,5 euro l’ora, per un totale di circa 45 euro netti per ogni turno da 10 ore di lavoro. Tuttavia alcune imprese utilizzavano anche bonus governativi per risparmiare sul costo del lavoro, oppure c’era elasticità (per usare un eufemismo) nel conteggio delle ore di attività.
È indubbio che lo sfruttamento lavorativo sia tanto più superabile quanto più siano presenti e radicate organizzazioni indipendenti per il controllo delle irregolarità e il rispetto dei diritti.
È un tema importante, perché senza diritti dei lavoratori non c’è rispetto della persona, ma neanche una crescita economica equa e quindi un progresso reale delle comunità che abitano i territori.