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L’Andreotti lirico, a Celano: affetto coniugale e diritto

L'evento approfondirà il tema “La famiglia come soggetto giuridico e sociale” e la partecipazione ad esso riconoscerà 3 crediti formativi presso l'Ordine degli avvocati di Avezzano e presso l'Ordine dei giornalisti d'Abruzzo

Celebre per le sue battute sarcastiche, considerato, storicamente, l’incarnazione del cinismo, Giulio Andreotti, nei mesi estivi che trascorse via da casa dal 1946 al 1960, scrisse alla moglie delle lettere, che, sotto la cura dei figli Serena e Stefano, sono appena state pubblicate per Solferino editore: Cara Liviuccia.

Lettere alla moglie. Ad iniziativa dell’avvocato Lucio Cotturone, il libro sarà presentato alle ore 17 di sabato 18 febbraio presso il ristorante “Guerrinuccio” di Celano dei Marsi (AQ), con la partecipazione degli stessi figli curatori, e gli interventi dell’avvocato Massimo Corsini, l’onorevole Elisabetta De Blasis, il prof. Lucio Achille Gaspari, l’avvocato Mariassunta Treglia, l’ingegnere Sergio Iacoboni, l’onorevole Angelo Sanza, l’onorevole Giorgio Silli, don Giovanni Venti, moderati da Giorgio Fozzati.

L’evento approfondirà il tema “La famiglia come soggetto giuridico e sociale” e la partecipazione ad esso riconoscerà 3 crediti formativi presso l’Ordine degli avvocati di Avezzano e presso l’Ordine dei giornalisti d’Abruzzo. Tanta è l’attenzione che sta suscitando questo volume da richiamare l’attenzione di studiosi, storici e politici che parlano de “l’altra faccia di Giulio Andreotti”.

Sfogliando le lettere, possiamo contestualizzare nei dettagli del privato della vita di Andreotti quello che fu un suo grande successo: la Riforma del Diritto di famiglia del 1975, che riconosce la parità di genere all’interno del matrimonio.

L’eguaglianza e la complementarità dei coniugi nel Diritto italiano furono l’esito di un progetto di vita che ritroviamo nelle Lettere: Andreotti, sin dall’inizio, e sempre più, ha riposto la sua stabilità emotiva attorno alla moglie, creando un soggetto duale, quello che lui chiama “il nostro sentimento affettivo che gli anni rafforzano con vigore”. Le lettere insistono sulla sfera emotiva e Andreotti non lo fa per convenzione: “Ti saluto con affetto e senza ossequi visto che non ti piacciono”. Chiede, anzi, di essere perdonato se non riesce ad esprimere i suoi sentimenti. È amore devoto verso un rapporto sacro a cui insistentemente offre doni ideali moltiplicati per cento, come mille erano i baci che moltiplicava Catullo: “Ciao, leggi il mio affetto per te e per i pupi anche nelle ideali cento pagine che dopo questa ti scrivo”.

Riscontriamo un immaginario dell’assenza strutturato sul ripetuto cercare, rassicurare (“Non ti turbare”) e domandare al tu coniugale – come unità duale di marito e moglie – il consenso su pensieri e azioni. È una lirica della mancanza, della “lontananza sempre triste”, dell’incapacità dei sensi senza la donna: “In tua assenza le stesse cose di Venezia che l’altra volta mi sembravano bellissime oggi appena riescono ad interessarmi”.

Un’assenza che gli dà tormento e lo esalta e che giornalmente egli colma e sublima con la scrittura: “Ma so che a ciò ti spinge il grande affetto e per questo mi consolo e mi esalto”. È un’ascesi dell’amore coniugale che eleva al di sopra degli ostacoli: “Ti bacio con affetto più alto delle piramidi”. Dura sin dalla fine della guerra, in cui, come gli italiani, Giulio e Livia erano rinati come superstiti “riconquistati alla vita”, ed è la dedizione sacrale verso l’unica cosa che, nella maturità, resta salda: la complementarità che sorregge Giulio Andreotti oltre l’uscita dal ruolo pubblico, per tutta la vita.

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