“Solo pochi giorni fa, a Lettomanoppello, l’ennesimo femminicidio in Abruzzo che ci ha lasciato tutti e tutte senza fiato. Tra pochi giorni, novembre, ci prepariamo al 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne. In questo periodo, si moltiplicano dunque iniziative e assemblee, per discutere di un fenomeno figlio di cultura patriarcale e, spesso, accade che soprattutto dal genere maschile la solidarietà e la reazione contro la violenza di genere si traduca più in un sostegno paternalistico che in una vera e propria presa di coscienza. Io credo che solidarizzare con alcune battaglie senza fare una seria autocritica, quasi rimuovendo che il nostro genere è parte del problema, rischi di diventare una ritualità, più autoreferenziale che utile allo scopo. Serve uno scatto. Nel 2024, in Italia, ci sono stati 109 femminicidi, di cui 95 in ambito familiare o affettivo, di cui 59 per mano del partner o dell’ex-partner. Le violenze subite da parte di ex partner sono cresciute rispetto al 2023 e sono aumentate le chiamate al numero 1522 per stalking”.
Questa la nota firmata da Sinistra Italiana Abruzzo, per mano di Daniele Licheri, segretario regionale.
“Nel 2025 le vittime di femminicidi, lesbicidi e transcidi sono 82. Senza contare che 7 donne su 10 che chiedono aiuto al 1522 non denunciano la violenza alle autorità, per paura di ritorsioni o per inefficacia degli interventi. Ancora: il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Di fronte a tutto questo, il governo Meloni vieta l’educazione sessuo-affettiva anche nelle scuole secondarie di primo grado. La violenza tra le mura domestiche è il principale pericolo di vita per le donne. Ma accade che, spesso, il genere maschile e una parte della politica percepiscano e rappresentino i fenomeni di violenza come devianza di singoli. Così la violenza di genere sembra essere confinata al capitolo della delinquenza, al pari dello scippo o dell’omicidio come regolamento di conti, o come devianza psichiatrica. Invece, si tratta di un fenomeno molto più complesso e sistemico, che non può escludere il suo legame con la cultura, con il patriarcato. Non dobbiamo né possiamo essere conniventi, bensì parte attiva in un processo di elaborazione politica collettiva e di cambiamento culturale, complessivo.
Rendersi conto di essere parte di quel genere maschile che usa violenza non è un passaggio scontato. Talvolta si raggiunge, tale percezione, attraverso un fatto traumatico. Quando questa percezione arriva, ci si chiede come sia possibile essere uomini esattamente come quei padri, fratelli, fidanzati, amici che fanno della violenza contro le donne un atto possibile nel loro vivere quotidiano. Amare una donna e sentirsi raccontare, da lei, che le veniva usata violenza nel nome della stessa parola amore, può essere la leva iniziale per porsi domande su come agire la propria sessualità, su come vivere nel proprio genere, sulle modalità con le quali si entra in contatto con i corpi delle altre e degli altri. Diventa quindi spesso complicato sentirsi parte di quel genere che è causa di disagio, se non di violenza, verso il genere femminile. Ancora più complicato quando nella tua vita sei sempre stato dalla parte degli sfruttati, dei subalterni, degli oppressi e ti rendi conto di essere al contempo parte del genere spesso agente di oppressione. Insomma, è un processo lungo, difficile e doloroso ma urgente: sradicare dal nostro genere l’idea di essere soggetto dominante e oppressore nelle relazioni tra generi. Sradicare in noi uomini l’idea di non poter manifestare emozioni dolorose o tristi.
L’appello continua: “È nostro compito e responsabilità, se vogliamo essere parte attiva del cambiamento, lavorare profondamente contro il senso di frustrazione che arriva da un rifiuto. Lavorare sull’elaborazione del “lutto” quando finisce una storia, attraverso la diffusione della cultura del consenso contro la cultura del possesso. Nei giorni scorsi a Genova si è tenuto un flash mob intitolato “I panni sporchi si lavano in pubblico” per sensibilizzare contro la violenza sulle donne e ha visto la partecipazione di uomini che hanno manifestato per discutere e affrontare temi legati a stereotipi e atteggiamenti maschili negativi. A Pescara è già accaduto nel giugno 2024 da parte del CUAV (Centri di Ascolto per Uomini Autori di Violenza). Io parto da me: da cittadino, padre, figlio, compagno e segretario di un partito. Non mi basta indignarmi, per questo faccio appello anche qui, in Abruzzo, ad associazioni, partiti, sindacati, singoli e singole che si ritrovino in un’idea del Noi, perché questa esperienza di presa di parola maschile possa essere immediatamente replicata in più città della nostra regione, in tempi rapidi. Perché serve un’assunzione di responsabilità. Costruiamo una piattaforma, scegliamo una data insieme e co-organizziamoci con le donne e con l’intero movimento LGBTQIA+ che da anni si battono per cambiare questo terribile pensiero unico e questa strage silenziosa. La battaglia culturale non può vivere nella separatezza, ma necessita di tutte e tutti e credo possa diventare un luogo attraversabile e condivisibile da chiunque lo vorrà. La questione che pongo è che gli uomini smettano di andare a rimorchio con superficialità e senza approfondire la questione, ma si assumano finalmente la responsabilità politica e collettiva di metterci la faccia fino in fondo, partendo dalla loro esperienza personale e dal loro ruolo sociale. Perché, come ci ha insegnato il pensiero femminista, se “il personale è politico” è tempo che gli uomini che dichiarano di voler davvero cambiare non si limitino a solidarizzare, spesso dopo ogni tragedia annunciata, ma inizino per davvero a modificare radicalmente il loro quotidiano. Vediamoci, parliamone e facciamolo subito, ieri o oggi è già tardi”, questa è la conclusione.






































