Al via in uno dei palazzi che ospitano gli uffici del Senato la riunione tra governo e maggioranza sulla risoluzione sulle comunicazioni del presidente del consiglio Mario Draghi in vista del prossimo Consiglio Ue, in calendario a Palazzo Madama per il pomeriggio di oggi.
Alla riunione per il governo ci sono il ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà e il sottosegretario Enzo Amendola.
Coinvolgere il Parlamento. Più di quanto fatto finora. Nei passaggi essenziali, come potrebbero essere quelli su nuovi invii di armi, che comunque non sarebbero esplicitamente citate. Non basta una riunione fiume, di un intero pomeriggio, per trovare la sintesi con le istanze M5S ed evitare che la maggioranza si spacchi sul sostegno dell’Italia all’Ucraina, su cui Mario Draghi tornerà a chiedere nel pomeriggio la massima unità alle Camere, prima di volare a Bruxelles per il Consiglio europeo.
Il premier torna in Senato (e domani alla Camera) dopo una settimana delicata per l’azione diplomatica italiana, che lo ha portato a cercare nuove alleanze per raggiungere l’indipendenza dal gas russo in Israele, e poi a Kiev insieme a Emmanuel Macron e Olaf Scholz proprio mentre Mosca riduceva le forniture all’Europa. L’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea, la necessità di una risposta economica comune alla crisi energetica amplificata dalla guerra, e dell’imposizione di un tetto al prezzo del gas anche per cercare di frenare la corsa dell’inflazione saranno il cuore delle comunicazioni di Draghi. Tutte questioni su cui la maggioranza si schiera compatta attorno al premier. A dividere i partiti tra loro, ma anche con il governo, sono invece “forme e modi” con cui rendere partecipi senatori e deputati delle scelte dell’esecutivo. Enzo Amendola e Federico D’Incà si siedono attorno al tavolo con i capigruppo delle commissioni Esteri e Politiche Ue dei due rami del Parlamento nel primo pomeriggio. E a sera ancora non si trova la quadra. Accolta l’idea di spingere sulla de-escalation militare e sull’iniziativa diplomatica, il minimo per i 5S che erano partiti dalla richiesta di un voto sull’invio delle armi, le trattative si arenano sul modo in cui coinvolgere il Parlamento. Il Movimento, scosso dalla faida interna proprio con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, alla fine di un Consiglio nazionale notturno, a metà pomeriggio produce il suo documento che ribadisce la necessità di “un più pieno e costante coinvolgimento delle camere sulle linee di indirizzo politico che verranno perseguite dal Governo a qualsiasi livello, inclusa l’eventuale decisione di inviare a livello bilaterale nuove forniture militari”. Non un buon viatico per trovare un punto di caduta comune.
Anche perché i pontieri da palazzo Chigi da giorni hanno fatto filtrare massima disponibilità alla mediazione con il limite invalicabile, però, del saldo posizionamento in linea con i partner Ue e dell’alleanza atlantica, anche sugli armamenti. No, in sostanza il messaggio fatto pervenire alle forze politiche, al commissariamento del governo su scelte cruciali di politica estera, a guerra in corso. Per uscire dall’impasse il governo propone di rifarsi al primo decreto Ucraina, che prevedeva un “atto di indirizzo” delle Camere – arrivato a larghissima maggioranza – cui fare seguire decreti ministeriali per le forniture militari all’esercito ucraino. E l’impegno dei ministri della Difesa e degli Esteri a riferire almeno ogni tre mesi sull’evoluzione della situazione. La dicitura proposta è di “coinvolgere il Parlamento secondo le procedure” previste dal decreto. Ma i 5 Stelle, e pure Leu, chiedono di fare un passo in più, un ulteriore coinvolgimento che vada oltre quanto fatto finora. La richiesta è quindi di “coinvolgere il Parlamento, ferme restando” le procedure già previste fin qui. Attorno a questa formulazione si incaglia il dibattito – nei toni sempre pacato, riferisce più di un partecipante. I dem Alfieri e De Luca tentano mediazioni che vengono bocciate.