Con la requisitoria dei pm che scatta mercoledì, a cui seguiranno nelle successive udienze le arringhe dei difensori, delle parti civili e degli imputati, si avvia alla conclusione la prima parte di uno dei processi per calamità naturali più complessi: la valanga che travolse il resort di Rigopiano nel comune di Farindola il 18 gennaio 2017 uccidendo 29 persone tra ospiti e lavoratori.
Si salvarono in 9, e molti furono estratti vivi dalle macerie.
L’episodio di Rigopiano fu il culmine doloroso di tre giorni infernali in Abruzzo, con metri di neve, strade interrotte, morti per assideramento, soccorsi a paesi e persone isolate, con 300 mila persone senza luce.
Dopo due anni a finire sul registro degli indagati furono in 24 più la società proprietaria, e successivamente al filone principale si aggiunse il cosiddetto depistaggio sulle responsabilità dei dirigenti della Prefettura portando il totale dei mandati a processo a 30.
A processo con rito abbreviato ci sono esponenti, oltre che della Prefettura, della Regione Abruzzo, della Provincia di Pescara e del Comune di Farindola, più tecnici e privati per una sfilza di reati: disastro colposo, lesioni plurime colpose, omicidio plurimo colposo, falso ideologico, abuso edilizio, omissione d’atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio, vari reati ambientali.
Tra i nomi più importanti spiccano l’ex prefetto Francesco Provolo, l’ex presidente della Provincia Antonio Di Marco e il riconfermato sindaco di Farindola Ilario Lacchetta. Per il resto dirigenti pubblici, funzionari con competenze di Protezione Civile, professionisti.
Dal processo è uscito il livello politico regionale: nel 2020 in 22 tra ex presidenti ed assessori e altri dirigenti sono stati prosciolti. La loro iscrizione girava intorno alla mancata realizzazione della Carta Valanghe, che resta uno dei temi forti del processo, e che l’inchiesta ha stabilito essere per legge di competenza degli organi amministrativi.
L’indagine ha riguardato le responsabilità di previsione e prevenzione della catastrofe e la gestione dell’emergenza, oltre che le questioni urbanistiche relative all’hotel. La Regione entra nel processo quindi per non aver dato vita alla Carta Valanghe la cui presenza avrebbe impedito la costruzione dell’hotel, insito in una zona storica di valanghe. C’è poi il capitolo della gestione dell’emergenza, nel quale rientrano le responsabilità di Prefettura, Provincia e Comune, assieme alle competenze sulla viabilità.
Il comune è nel processo per la realizzazione stessa del resort, per aver dato i permessi di costruzione pur sapendo che era in zona a rischio valanghe anche in assenza di una Carta Valanghe. Il cosiddetto depistaggio sulle telefonate di allarme arrivate in Prefettura sin dal mattino finisce nel processo principale perché è connesso con le omissioni precedenti al fatto: pur realizzandosi dopo e non incidendo sulla valanga, interviene nelle indagini.
Si tratta di un processo con responsabilità sistemiche e concatenate, nell’ambito di comportamenti omissivi o colposi, che vanno dai permessi di costruzione ai soccorsi, passando per l’inquadramento e il rispetto delle norme. Ognuno degli enti risponde di competenze specifiche a volte con concorso tra di loro.
A processo sono arrivate anche le due perizie disposte da Procura e Gup: tra le due non ci sono sostanziale differenze. Se quella degli esperti della Procura guidata da Giuseppe Bellelli, coadiuvato dai sostituti Andrea Papalia e Anna Benigni, ha ricostruito i fatti, quella del giudice ha risposto ad alcune domande specifiche, tra cui se le scosse di terremoto registrate al mattino avessero potuto innescare la valanga.
La risposta è stata interlocutoria: non c’è una connessione certa così come in linea teorica non si potrebbe escluderla. Ma, è stato rilevato, aver permesso la costruzione di un resort in una zona valanghiva e sismica, potrebbe essere persino aggravante. Se i tempi del dibattito saranno rispettati, da qui alla fine dell’anno ci saranno sei udienze: potenzialmente la sentenza potrebbe essere emessa all’inizio 2023, a sei anni dal disastro.