Alfonso De Amicis – storico esponente della sinistra di classe aquilana, tra i promotori del Comitato Popolare per la Difesa del Sistema Sanitario Nazionale, nato recentemente all’Aquila – interviene sulla questione dell’autonomia differenziata e sugli effetti che produrrà anche sulla sanità pubblica.
“È inutile ritornare sulla riforma del Titolo V della Costituzione voluta pervicacemente dal centro sinistra per arginare la forte ascesa della Lega. Forse dovremmo ragionare sul senso della storia. Storia che affonda dentro le dinamiche degli ultimi quarant’anni e che ha visto il nostro Paese oggetto di pesanti interventi da parte di Paesi stranieri, per distruggere la grande capacità industriale e mettere all’angolo la forza di un movimento operaio e democratico unico in Occidente.
La proposta dell’Autonomia differenziata trae ispirazione da questa storia. È l’atto finale per parcellizzare, polverizzare, quello che rimane di questo disgraziato Paese. L’autonomia differenziata è stata partorita e voluta dalla Lega lombarda, dalla maggioranza governativa e da uomini potenti del Pd del Nord.
Già nel 2021 la mobilità sanitaria interregionale in Italia ha raggiunto un valore di 4,25 miliardi, cifra nettamente superiore a quella del 2020 (3,33 miliardi di euro), con saldi estremamente variabili tra regioni del Nord e quelle del Sud.
L’attrazione maggiore della migrazione della salute si proietta verso l’Emilia Romagna Lombardia e Veneto. Le Regioni capofila dell’autonomia differenziata, raccolgono il 93,3% del saldo attivo mentre il 76,9% del saldo passivo si concentra in Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia.
Fra poco l’Abruzzo andrà alle urne. Da tenere presente che la spesa sanitaria è quella più consistente e corposa e, tuttavia, la disponibilità della stessa è sempre concentrata affinché il sistema complessivo ruoti intorno a quel concetto di sanità come servizio e non come un diritto universale.
In buona sostanza, sarà sempre un’azienda e dove essa segnerà deficienze, il cittadino può sempre scegliere se ha i soldi per fare la mobilità sanitaria. Questo fenomeno ha delle implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche che riflettono le diseguaglianze tra le stesse regioni ma soprattutto tra quelle meridionali e quelle del Nord.
Anche dentro il Nord, però, vi sono contraddizioni e frizioni. Regioni come Piemonte e Liguria risentono molto della recente deindustrializzazione e di una forzata egemonia di sviluppo votata esclusivamente sul terziario ma il cui sbocco è solo un collo di bottiglia. È del tutto evidente che il gap tra alcune regioni del Nord e il Sud in generale si va sempre più divaricando finendo per essere strutturale. L’unità del Bel Paese è nei fatti finita e le alchimie istituzionali non serviranno a nulla. Forse solo a guadagnare tempo.
E la balcanizzazione della sanità non porterà più soldi a Zaia piuttosto che a Bonaccini o al presidente della Lombardia (il termine governatore è alquanto ridicolo. Potrebbe andare bene se fossimo una vera Nazione, ma visto la mala parata di tante piccole regioni – ognuno per sé – sarebbe meglio avere più senso della realtà), gli enormi introiti della mobilità sanitaria andranno ai grandi gruppi finanziari che si sono riciclati e che negli ultimi anni ha spostato i loro investimenti da attività produttive tradizionale e classiche a settori come quelli della salute, che vista l’età media dell’Italia questa scelta risulta essere alquanto remunerativa.
Questo atto finale non sarà solo la tomba del Sud ma l’attacco finale ai risparmi e al salario diretto e differito del popolo del Nord Italia. Potrebbe essere la fine della cosiddetta seconda repubblica. Per quanto possibile, e perché lo riteniamo giusto difendiamo un Diritto Universale acquisto negli d’oro di questo Paese la Riforma di Tina Anselmi sulla Sanità Pubblica. Con più occupazione e di qualità, meno file al Cup, più medici ospedalieri, più infermieri, più lavoratori negli altri settori, più sanità di prossimità”.