Diventare leggenda, come fosse facile. Come se esistesse un algoritmo per cui acquisire uno status, una condizione, un ruolo. Zlatan Ibrahimovic è leggenda e lo è indiscutibilmente.
96 minuti di pellicola, firmata dai fratelli Fredrik e Magnus Gertten, per raccontare cosa c’è dietro l’eroe. Non i soldi, le macchine, i campionati vinti, i gol maledettamente belli. La vita fuori lo spogliatoio è stata una guerra; 96 minuti di guerra, coi compagni, con la famiglia, con sé stesso e con il mondo, in cui ciò che viene fuori è tutto quello che mai avremmo immaginato.
Il naso troppo grande e la pronuncia imperfetta. Il logopedista risolse qualcuno dei problemi di Zlatan, per il resto, per gran parte della sua infanzia, non fu altro che uno zingaro disagiato senza amici che andava in giro a rubare biciclette. Sua madre, prima di finire in carcere, faceva di tutto per tenere su ciò che restava della famiglia, ma i soldi non bastavano mai e lui si nutriva di grandi filoni di pane. Suo padre, bosniaco, divenne alcolizzato e, di quattro fratelli, sua sorella Sanela fu l’unica vera famiglia che ebbe. Certe volte, Ibra, restava fuori casa fino a tardi, per non vedere suo padre bere e soffrire aspettando notizie alla tv sull’invasione serba in Bosnia dove, oltre ai sogni, aveva lasciato amici e familiari.
Dietro il fisico possente riempito dai tatuaggi e l’aria infastidita, c’è un uomo profondamente segnato dalla solitudine. Sua moglie Helena e i figli, Vincent e Maximilian, sembrano la versione ariana della famiglia del mulino bianco, voluta, contemplata e rispettata dal gigante venuto dal ghetto. Lui stesso si definisce un criminale mancato e, forse, se non fosse divenuto leggenda, sarebbe stata quella la sua strada. A detta sua, la durezza del carattere viene dalle origini balcaniche, la quotidianità di una vita disagiata ha fatto il resto.
Il ragazzino che scampò la banlieue di Malmo ebbe la forza di portare con sé quella sofferenza mista alla rabbia e sfogarla nei piedi appena gliene fu data l’occasione. Il Malmo Boll och Idrottsforening segnò l’inizio di una nuova vita fatta di calcio, non della leggenda: quella cominciò in periferia, nella povertà più nera.
Zlatan Ibrahimovich ha cambiato pelle infinite volte e mai si è fatto ipocrita per interesse. La divisa non gli è mai stata cucita addosso, quella può cambiare, come pure il destino, e sarebbe inutile sostenere il contrario. Ibra non è bandiera di nessuno perché non esistono certezze e l’unica casa che conosce è quella condivisa con la sua famiglia. Le élite del calcio lo hanno cercato e voluto: Ajax, Barcellona, Juventus, Milan, Inter, Paris Saint Germain e Manchester United, in ognuna di queste avventure Ibra ha stregato e lasciato il segno. Le prestazioni e le prodezze da far girar la testa, le acrobazie judoke, inimitabili, e la fierezza, spesso confusa con arroganza. I rapporti conflittuali con la stampa, i legami sterili coi grandi nomi del calcio, su tutti quelli di Guardiola ai tempi del Barça, o ‘Collegio’, come lui lo definisce, e Messi, troppo preso da quel mondo per scolaretti, a detta sua infinitamente bravo ma venerato oltremisura nella ciudad delle ramblas.
L’unico amore extraconiugale è quello per le automobili, possibilmente italiane, possibilmente Ferrari. La sua ‘Enzo’ fu motivo di divorzio coi blaugrana: costava quanto la squadra dell’Almerìa, ‘eccessiva’, fuori luogo e al Barcellona non ci si poteva mettere in mostra. Non poteva essere, quello, il posto giusto per Zlatan, come non lo erano stati Amsterdam, Torino e Milano. Non esisterà mai il posto perfetto e non è un caso che il ‘mal di pancia’ calcistico lo abbia inventato lui.
La sua grandezza se l’è costruita sui campi del pianeta tra azioni ubriacanti e colpi da campione. Non c’è ambiente in cui abbia fallito, non c’è tifoseria che non l’abbia amato, non c’è rettangolo di gioco che non gridi il suo nome. Tutto quello che c’è dietro il fenomeno è intimo e irrintracciabile, sappiamo solo dell’enorme fatica degli anni dell’infanzia, ed è lì che la leggenda ha avuto inizio.
96 minuti per descriverne la sostanza, i racconti mai detti per capire l’uomo dietro il calciatore. Il ragazzino del ghetto non è mai scomparso del tutto, dietro la leggenda si cela, ormai quieta, l’anima solitaria del bambino più forte del proprio destino.