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Letta prepara il rush per recuperare tra 4 e 10 mila voti

Un finale di campagna elettorale "mirato" per conquistare i voti che mancano all'appello del Partito Democratico e che consentirebbero di evitare che la destra abbia il 70% della rappresentanza parlamentare

Non si molla di un millimetro, tutti si devono sentire coinvolti nella campagna elettorale”.

Dal Nazareno si compulsano i sondaggi e si pianifica il rush finale di questa strana e brevissima campagna elettorale estiva. Il segretario ha mobilitato tutto lo stato maggiore, ha spronato i candidati a lavorare testa bassa per recuperare terreno e fermare la “torsione iper maggioritaria” che si verrebbe a produrre se la destra dovesse prendere più del 43% dei consensi.

“Il gruppo dirigente è attivissimo”, riferiscono dal quartier generale dem, “il segretario è in stretto contatto con i due vice, con le capigruppo di Camera e Senato, con il tesoriere”. Una mobilitazione totale che restituisce anche l’immagine di un partito in cui sono “sono superate le logiche di corrente”. Dal Nazareno spiegano che “le liste sono state un trauma necessario visto il taglio dei parlamentari, ma ora il peso delle correnti non c’è più, non si sente”.

Un segnale in questo senso sembra essere anche l’attivismo elettorale di Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna, indicato come uno dei possibili candidati alla segerteria del prossimo congresso. E poi ci sono quegli esponenti provenienti da aree diverse, come Zingaretti e Borghi, Ascani e Nardella, Provenzano e Serracchiani, che “stanno dando prova di essere un gruppo dirigente capace ormai di prescindere dalle correnti”.

Un finale di campagna elettorale “mirato” per andare a conquistare quei voti – dai quattro ai diecimila – che mancano all’appello del Partito Democratico e che consentirebbero di evitare che la destra si ritrovi con il 70% della rappresentanza parlamentare. Il baricentro della campagna del segretario sono i due collegi del Nord in cui è candidato, Lombardia e Veneto, dove sono previste tappe con il bus elettrico.

Poi ci si sposterà al centro e al sud, ma con altri mezzi data la penuria di colonnine elettriche al di sotto della linea del Tevere. Un altro modo per segnalare l’arretratezza del Paese sul fronte della mobilità sostenibile. Al Nazareno studiano la mappa con i collegi in bilico, determinati a non lasciare nulla al caso e consapevoli di dover fare fronte a una legge elettorale spiccatamente maggioritaria.

Il ragionamento, però, non è solo quello del voto utile: c’è un problema di percezione della legge elettorale. Il voto dato a un singolo partito, ricordano dal quartier generale del Partito Democratico, non garantisce l’automatico trasferimento di quel consenso in Parlamento. Così, se anche un partito come i Cinque Stelle dovesse ottenere il 15%, in Parlamento potrebbe contare su circa 20 parlamentari, al massimo. “E con 20 parlamentari ci fai poco, a meno di non aprire a un governo di salute nazionale con Giorgia Meloni”.

Una prospettiva che il segretario del Pd Enrico Letta rifiuta nettamente.”Letta ha ripetuto che il Pd non può essere sempre la protezione civile dell’Italia: il voto conta”. Ecco perché il segretario sta battendo sul tasto della legge elettorale, sebbene questo gli procuri le critiche dei renziani. “Renzi prende le distanze dal Rosatellum ma, come si dice in questi casi, nomen omen”, osservano dal Pd facendo riferimento al nome di Ettore Rosato, presidente di Italia Viva che ha tenuto a battesimo la legge.

“Non ci inventiamo che è stato Gentiloni con un colpo di mano a imporre il Rosatellum senza che Renzi, allora segretario del Pd, insistesse su questo punto”. E la legge elettorale è, per il Pd, la madre di tutte le riforme necessarie per dare stabilità al Paese. Altro che presidenzialismo, di cui Letta non vuol sentir parlare. letta e i suoi sono “stupiti del fatto che, mentre è in corso la campagna elettorale, la destra già stia pensando a come mettere mano alla Costituzione. Non dovrebbero vincere, prima?”.

Per i dem, alla base di tutto questo, c’è un certo revanscismo per non essere riusciti a portare a casa questo disegno quando hanno governato. Ma, è il ragionamento in casa dem, il presidenzialismo non garantisce affatto maggiore stabilità nei governi. A parte che in Europa lo adottano solo a Cipro, dove c’è un sistema semipresidenzialista i risultati non sono dei migliori. Si guardi, ad esempio alla Francia dove Macron ha difficoltà a mettere in sincronia l’azione della presidenza con quella del’Assemblea Nazionale.

Che il tema non siano i poteri del presidente, poi, lo dimostrano gli ultimi anni in cui c’è stata una forzatura che andava in senso opposto alla natura parlamentare della Repubblica, con il Parlamento messo via via sempre più all’angolo dai governi che si sono alternati.

Sulla linea del ‘No’ alla bicamerale proposta da Meloni sulle riforme, i dem trovano anche gli ex compagni di viaggio del M5s. Giuseppe Conte e i suoi hanno impostato una campagna che appare sempre più come un’Opa ostile nei confronti dell’elettorato di riferimento del Partito Democratico. “E’ sempre più evidente la ragione per cui Conte ha voluto rompere”, osservano dal Nazareno.

Il M5s, è il ragionamento offerto, voleva essere il baricentro dell’alleanza, con un Pd satellite di Conte, e questa era una “condizione irricevibile” per i dem. Ma il tema che più preoccupa il Partito Democratico è quello riguardante il dl Aiuti da 13 miliardi, fermo per l’emendamento presentato dal M5s con l’obiettivo di facilitare la cessione dei crediti. Il voto in commissione è saltato per mancanza di accordo politico e il testo arriverà direttamente in Aula martedì 13 settembre.

“E’ gravissimo”, osservano dal Pd, “che si rischi di perdere 13 miliardi di risorse perché Conte si è impuntato di nuovo sul Superbonus. Anche nel dibattito parlamentare”, ricordano ancora al Nazareno, “il presidente del M5s andò su tutte le furie perché Draghi sottolineò che la norma era scritta male. Ma la norma non l’aveva mica scritta Conte. L’avevano scritta gli uffici dei ministeri”.

Il risultato è che “ora i crediti sono bloccati, i lavori non vanno avanti le imprese non riescono a pagare i lavoratori perché non hanno liquidità”.

Al netto della vicenda in sé, si tratta di una nuova spia che indica la distanza che ormai separa Pd e M5s. Non si tratta tanto di “difendere l’agenda Draghi, quanto il lavoro fatto dal governo Draghi”, sottolineano i dem: “I Cinque Stelle volevano recuperare la verginità perduta per una questione di consenso. Dal punto di vista elettorale è una mossa vincente. Ma per noi non era possibile tornare indietro e allearci con chi ha precipitato il Paese alle elezioni durante una guerra e una crisi economica e sociale senza precedenti. Con che tipo di credibilità Letta sarebbe andato a chiedere il tetto al prezzo del gas o interventi sulle bollette?”.

Nessun rammarico, dunque, per l’alleanza mancata. Come nessun rammarico c’è, nel Pd, per l’altro alleato mancato, che oggi appare “in difficoltà nella coabitazione con Matteo Renzi: “Cominciano a emergere le prime divisioni. Uno è per lo scostamento di bilancio, l’altro no, uno dice sì alla bicamerale con Meloni, l’altro no”. Divisioni che fanno dire a Enrico Borghi: “È evidente che sono un cartello elettorale destinato a smontarsi la sera delle elezioni. Motivo in più per non sciupare voti”.

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