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CGIL provincia dell’Aquila: lettera contro la povertà

Il sindacato: "Vogliamo raccontare di una povertà che chiede la parola e di cui ogni giorno abbiamo testimonianza attraverso la nostra rete sindacale, radicata sui territori e tra la comunità"

“Noi della CGIL siamo abituati a dare dati e cifre, ma questa volta non ne abbiamo. Non sappiamo e non possiamo quantificare la tragedia umana ed il fallimento politico che si nascondono dietro agli scenari di povertà che stanno emergendo in questo periodo nella nostra provincia e, in particolare, nel territorio aquilano”. È quanto si legge nella “Lettera contro la povertà” pubblicata dalla CGIL della provincia dell’Aquila.

“Oggi – continuano – vogliamo parlare delle persone che sono dietro ai dati e alle cifre; vogliamo raccontare di una povertà che chiede la parola e di cui ogni giorno abbiamo testimonianza attraverso la nostra rete sindacale, radicata sui territori e tra la comunità.
Iniziamo dal territorio aquilano in cui da 12 anni, dalla crisi del 2008 e poi al terremoto del 2009 e poi a quelli del 2016/17 ed infine al coronavirus, si susseguono emergenze economiche e sociali che hanno determinato la nascita di micro economie fragili che sono crollate in questi due mesi di lockdown. Il loro crollo ha fatto emergere con prepotenza l’entità di un fenomeno di cui non ci si è mai occupati abbastanza: la povertà assoluta. E’ esplosa in queste settimane perché è venuta meno un subcultura di lavoro nero, lavoretti, lavori mal pagati e lavori senza identità. Situazioni occupazionali grigie, spesso al limite del lecito che erano sotto gli occhi di tutti e tutte, ma che con buona pace di tutti e tutte convivevano con la retorica della ricostruzione e dell’uscita dalla crisi. Non a caso la zona dell’aquilano in questo momento più debole e maggiormente povera è quelle a nord della valle dell’Aterno. Esattamente quella colpita più ferocemente dai terremoti del 2016/17. Una zona dove la ricostruzione non è mai avvenuta, non è spesso neanche iniziata e dove, già da alcuni anni, si registravano situazioni al limite del tracollo. Una zona distante dalla città, lontana dalla sua poca produzione industriale e che viveva di un’economia locale crollata con gli edifici, rimasta sotto le macerie prima del 2009 e poi ancor più fortemente del 2016 e 2017.
Ma anche in città e in quelle sue zone d’ombra che la politica non trova utili per la propaganda, non si contano le famiglie che, in questi giorni, si rivolgono alle nostre strutture o alle associazioni di volontariato e alle reti di aiuto auto organizzate (che ringraziamo vivamente perché stanno svolgendo un lavoro enorme e per niente scontato) perché necessitano di ogni cosa; perché l’isolamento da emergenza coronavirus le ha private di entrate mai censite e mal pensate, ma di fondamentale importanza per chi, fino ai primi di marzo, vi trovava l’unica fonte di sostentamento.
Grazie anche al racconto di chi ogni giorno distribuisce pacchi spesa ed agisce concretamente la solidarietà, abbiamo conferma dell’esistenza di una povertà diffusa di difficilissima soluzione. Si tratta di quell’economia che non ripartirà. Neanche quando si supereranno gli incomprensibili ritardi, più volte da noi denunciati, nell’erogazione delle misure previste dai decreti di emergenza, come la cassa in deroga, che hanno determinato una povertà transitoria e che, comunque al momento, deve essere sostenuta. Si tratta di quell’economia che non ripartirà. Neanche quando l’emergenza sarà finita. Si tratta di una povertà che rischia di divenire endemica, spesso dovuta alla perdita del lavoro femminile, quello di cura o di pulizie, che rappresentava per molti nuclei familiari una fonte di reddito stabile; poiché gli uomini, quando si danno da fare muovendosi nella jungla del lavoro nero, spesso lo fanno attraverso il micro lavoro occasionale. Fermandosi le donne, che non entrano più nelle case di chi vive meglio per assistere anziani e malati o per fare le pulizie, questo precario equilibrio di economia informale e familiare si è disintegrato e trasformato in povertà assoluta. E non trova risposte, perché le persone che colpisce non esistono, non sono censite, non hanno i diritti attribuiti dal lavoro regolare.
E se ci preoccupa il rischio che le conquiste delle donne, in termini di lavoro e di indipendenza, possano essere annullate da un’emergenza che le riporta a casa, alla cura familiare, alla maternità forzata, confermando quanto in tempi non sospetti affermava Simone de Beauvoir chiedendo alle donne di stare attente, perché sarebbe bastata una crisi politica, economica o religiosa per mettere in discussione diritti che non sono mai del tutto acquisiti, non possiamo non essere ancor più preoccupati/e dalla certezza che ancora una volta a pagare il prezzo di una società che non ha mai neanche lontanamente favorito l’occupazione femminile, insieme alle donne saranno i bambini. Abbiamo già visto quanto la didattica a distanza, lungi dalla retorica ministeriale del suo buon andamento, abbia messo in luce le disuguaglianze sociali ed economiche, che non permettono a molti di loro di accedervi perché sforniti dei dispositivi o della connessione. Ma ora parliamo di bambini e bambine che non hanno più sostentamento quotidiano a cui la scuola, quella vera, quella in presenza, spesso attraverso la gratuità, garantiva almeno un pasto al giorno e la distanza per qualche ora dalla miseria della loro casa. Parliamo di bambini e bambine a cui non è garantito il presente. Figuriamoci il futuro.
Già a Gennaio denunciavamo il fatto che, dai dati in nostro possesso, la provincia dell’Aquila tra quelle abruzzesi era la più impattata dalle richieste di reddito di cittadinanza, con un buon 3,77% della popolazione ad aver prodotto domanda. Mettevamo allora in risalto un arretramento ormai strutturale del quadro economico provinciale dovuto ad anni di mancata crescita occupazionale e di crisi economica con conseguente spopolamento delle aree più interne. Infatti, soffermandoci sull’Aquila e sull’aquilano, non possiamo però non accennare ad altre vaste zone della nostra provincia. Non possiamo non accennare alla Valle Peligna, territorio fortemente deprivato e ad alto rischio di povertà assoluta. Un territorio paesaggisticamente tra i belli della nostra regione che perde costantemente lavoro e popolazione. Anche questo lo avevamo denunciato a settembre, in conferenza stampa, invitando la politica all’apertura di tavoli che non è mai avvenuta. E non possiamo neanche tacere sulla deindustrializzazione della Marsica dove la caduta del reddito e dell’occupazione hanno raggiunto limiti mai toccati prima minando la coesione sociale dell’intera zona. Alla povertà creata da questa crisi si aggiunge quella dei tanti migranti che lavorano nel Fucino senza nessun riconoscimento di cittadinanza, tanto che alcuni anni fa li abbiamo definiti invisibili. E’ una povertà quella del Fucino, che favorisce caporalato e fenomeni di infiltrazioni mafiose.
Riteniamo che non sia più possibile continuare a pensare che il modello del mercato ad ogni costo possa essere la soluzione e siamo dell’idea che prima del profitto vengano le persone ed i loro diritti fondamentali. Ed il lavoro è un diritto fondamentale che si esercita all’interno di un patto sociale. Se il lavoro non c’è ci vuole un piano straordinario di occupazione, accompagnato in itinere da misure straordinarie di reddito per tutti e tutte che permettano, qui ed ora, alle persone di recuperare la dignità dell’esistenza, di sentirsi all’interno di un modello economico diverso che torni a parlare alla gente e della gente. Non è procrastinabile un grande piano per il lavoro che faccia anche emergere quanto accaduto finora sul lavoro nero, su quello grigio, sui contratti pirata, sul caporalato e sullo sfruttamento in tutte le sue differenti e sfumate declinazioni.
Non si sconfigge la povertà fingendo che non ci sia o attraverso una carità che non si trasforma in solidarietà. Bisogna saper riconoscerla, guardarla ed infine accoglierla per poter superarla attraverso la dignità del lavoro che è il solo strumento che noi della CGIL conosciamo ed il solo che sappiamo possa permette ad uomini e donne, italiane e straniere, di esercitare appartenenza e cittadinanza. Come disse Gutiérrez, non si tratta di idealizzare la povertà, ma al contrario, di assumerla come essa è, cioè come un male, per protestare contro di essa e sforzarsi di sopprimerla”.
Se da questa emergenza dobbiamo uscire diversi e diverse può significare soltanto uscirne migliori e riconoscere che la povertà è l’esempio più lampante del fallimento di un sistema che non ha funzionato. Dobbiamo avere l’intelligenza, la volontà e la capacità di superare quel sistema e di cogliere l’occasione per cambiare il paradigma e riprendere a parlare di giustizia sociale. Di lavoro per tutti e tutte. Di diritti diffusi di cittadinanza”.

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