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AIES: quotidiane aggressioni a personale sanitario

"I pronto soccorso non possono più fare a meno di presidi fissi di polizia, è ormai evidente"

COMUNICATO STAMPA

 

Ancora una volta le cronache ci parlano di aggressioni a personale sanitario. Succede ormai giornalmente.

Inizia così la nota del Consiglio Direttivo AIES (Accademia italiana emergenza sanitaria).

Aggressioni il più delle volte verbali che, in alcuni casi, come in quello dell’infermiera di pronto soccorso Anna Procida, diventano purtroppo fisiche.

Questa volta, una delle tante, troppe, è accaduto al San Leonardo di Castellammare. Ma avremmo potuto trovarci ovunque. Ovunque in un Paese dove l’impunità, nonostante gli inasprimenti delle pene evidentemente insufficienti a prevenire il fenomeno, la fa da padrone.

La rabbia, oltre che verso gli aggressori e l’inutilità dei loro gesti, è verso uno Stato inesistente.

Uno Stato che continua ad ignorarci, che ci ha glorificato come eroi del covid e poi ci ha nascosto sotto il tappeto, come la polvere.

Uno stato a cui da mesi, anni, vengono chieste risposte in termini di tutela e sicurezza, in termini di riconoscimento sociale ed economico e che ancora oggi ci fa sentire con il suo silenzio assordante, che diventa rumore solo durante convegni e congressi, cittadini e lavoratori di serie B.

Uno Stato che con la sua incapacità di prendere decisioni costringe i nostri giovani a scappare per trovare riconoscimento e dignità.

Uno Stato che si riempie la bocca di vane promesse, ma che tiene fermi, nelle varie commissioni o in infinite calendarizzazioni, disegni di legge per la riforma del sistema emergenza urgenza da anni, nell’evidente tentativo di mettere insieme spinte lobbistiche che difficilmente potranno trovare una quadra senza decisioni che possano scontentare più di qualcuno.

Dobbiamo continuare a pretendere, da chi lavora in pronto soccorso o nell’emergenza territoriale che, “per contratto”, metta in conto, come qualcosa di inevitabile, di poter essere aggredito o, nella peggiore delle ipotesi, di non tornare a casa dai propri cari? Dobbiamo normalizzare questi fatti, quasi giustificarli, in virtù del fatto che l’utente “si trova in un momento particolare..”?

Quanto vogliamo chiedere ancora agli operatori sanitari, in termini di resilienza volta ad ovviare, anche col proprio corpo e la propria salute, alle mancanze del servizio pubblico?

I pronto soccorso non possono più fare a meno di presidi fissi di polizia, è ormai evidente.

Ma non basta. Chi compie questo genere di aggressioni deve sapere che esiste una certezza

della pena e che questa è reale e, all’occorrenza, dura.

In questo senso la recente Legge 113/2020 è un primo importante passo, ma non ancora sufficiente.

Le aziende ospedaliere, poi, dovrebbero farsi carico, per legge, di ogni tipo di spesa cui gli

operatori, colpiti da atti di violenza, possano andare incontro. Da quelle legali a quelle per la

psicoterapia per elaborare un potenziale trauma derivante dall’aggressione, che dopo casi del genere dovrebbe essere attivata automaticamente.

Ma esiste un’altra faccia della medaglia. Si chiama educazione.

Non quella che, banalmente, dovrebbe essere sufficiente ad impedire ad ognuno di compiere atti di aggressione immotivati ed ingiustificabili come quello di cui parliamo.

Per non dire di quella volta a contrastare la violenza di genere, di cui l’evento di Castellammare è pregno.

No, stiamo parlando anche e soprattutto di quella al buon uso dei servizi. Parliamo di educazione alla tutela del bene pubblico, che dovrebbe portare ad utilizzare il sistema di emergenza solo nel caso in cui sia davvero necessario, non per vicariare servizi mal funzionanti o che, per vari motivi, si sceglie di non far funzionare, riempiendo così i reparti di pronto soccorso e rendendoli spesso gironi infernali per utenti e operatori.

Forse da questo sarebbe utile ripartire, pensando che il bene pubblico più prezioso è fatto proprio  dalle tante Anna Procida, e da sua sorella, che qualcuno si è permesso di prendere a pugni mentre svolgevano il loro lavoro. Quei pugni sono stati dati ad ognuno di noi, ed iniziano a fare troppo male per poterne sopportare altri.

In un Paese normale non è accettabile uscire la mattina per andare al lavoro e non avere la

certezza di se, e come, si tornerà a casa. Se si tornerà vivi oppure con le ossa rotte, il viso

tumefatto e l’anima strappata. In un Paese normale non dovrebbero esistere martiri del lavoro.

Non siamo né martiri né pugili. Siamo professionisti sanitari (tutti: medici, infermieri, oss, tecnici, autisti) che lavorano giorno e notte per il ben-essere dei nostri concittadini. Non vogliamo essere chiamati eroi, ma vogliamo la dignità di un lavoro sereno e sicuro. Pretendiamo la dignità di un luogo di lavoro in cui non ci si debba guardare le spalle, in cui non si debba avere paura di rimetterci la vita.

Dov’è lo Stato? Dove la politica? Quando arriveranno risposte reali al problema?

Viene da pensare che dare quelle risposte sia scomodo o poco conveniente. Viene da pensare che si stia facendo di tutto per uccidere quel poco che resta del SSN, smembrarlo e darlo in pasto al migliore offerente. Tutto questo, però, avviene in un assordante silenzio, mentre il nostro sangue macchia le strade e le corsie dei degli ospedali.

Ci definiscono angeli del soccorso ma, oggi, le divise bianche sono macchiate di un sangue rosso scuro, rappreso.

Negli ultimi giorni, ad Avellino, i colleghi si sono visti sventolare sotto il naso anche una pistola. Non attendiamo, a causa dell’ignavia di chi dovrebbe decidere, di veder piangere lacrime di coccodrillo davanti ad una bara bianca.

 

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